Antonio Albanese in Tutto tutto niente niente, nuovo film (cinepanettone) di Natale 2012. Recensione di Tutto tutto niente niente.
Tutto tutto niente niente
Albanese cambia registro e punta sulla quantità
A poco meno di due anni dall’apprezzabile Qualunquemente dove Albanese e l’abile regia di Giulio Manfredonia sfruttavano con arguzia le incongruenze dello scenario politico italiano esasperandole e finendo per disegnare un quadretto comico che colpiva nel segno, a distanza di un crollo del governo il binomio si ripresenta con ambizioni di ben altra portata. Il comico lombardo si fa in tre (Frengo Stoppato, Cetto Laqualunque e Rodolfo Favaretto) e Manfredonia si trova il non facile compito di ricondurre tutto in un quadro coerente, quantomeno seguibile.
Ma è una scommessa persa in partenza e Manfredonia (che è un bravissimo regista) lo sa, ed opta per uno spostamento della trama sui binari di un non-sense privo di interpretazioni o contestualizzazioni. Più che una storia è un alternarsi di macchiette che si muovono in una cornice felliniana, dove la stranezza diventa normalità e l’eccezione diviene regola. Solo un piccolo spiraglio di narrazione, che spiega come tre personaggi simili (un tossicodipendente-spacciatore, un razzista con progetti di “secessione morbida” e un politico calabrese colluso con la mafia) siano finiti, per mere questioni numeriche, in parlamento.
Poi una gag dietro l’altra a caratterizzare le personalità dei protagonisti, che agiscono in campi totalmente svincolati dalla trama, pur cogliendo intelligentemente tutti quei controsensi all’italiana, vere preoccupazioni di una politica che è esclusivo mezzo per realizzare i propri affari privati: la vigorosa mascolinità di Cetto messa a repentaglio da una traumatica esperienza con un trans, le ambizioni di santità di un drogato-spacciatore guidato da una madre reietta che non trova altri mezzi per esser fiera del suo pargolo e la politica secessionista di un veneto che rivendica origini austriache in virtù del rinvenimento di una misteriosa pergamena letta con fierezza di fronte ad una stampa allibita.
Ne viene fuori un’opera in cui gli eccessi voluti finiscono per apparire privi di senso in quanto semplice scenografia e non davvero funzionali al mantenimento di una trama che praticamente non esiste. Mentre in Qualunquemente il dramma della politica nostrana era messo in scena con chiarezza, in Tutto tutto niente niente quel dramma è solo sfondo e, oltre a non far presa eccessiva sullo spettatore, non rappresenta un vero e proprio racconto.
Lo scrittore Antonio Pascale sottolineava che spesso, quando ci si addentra totalmente in un ambiente, si finisce per riprodurne gli stessi meccanismi malati e le stesse pratiche contraddittorie; forse è proprio quello che è successo qui a Manfredonia e all’immaginario cinematografico di Albanese, smarriti in una trappola costituita da esuberanze che inghiottiscono tutto il resto lasciandoci solo qualche breve tratto di genialità comica, quasi sempre merito della più riuscita delle tre maschere: Cetto Laqualunque.
Articolo a Cura di Marco Ciotola
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