È uscito oggi, 16 novembre, un rapporto a Berlino che conferma la tesi già precedentemente sostenuta da un documentario: negli anni ’80, il colosso svedese “Ikea”, avrebbe approfittato a costo zero della manodopera dei prigionieri politici di quella che era la Germania dell’Est.
Il caso era stato sollevato da un documentario trasmesso in Svezia qualche mese fa, che ha poi costretto Ikea a rifarsi agli ispettori di Ernst&Young, i quali hanno redatto un rapporto confermando quanto sosteneva il documentario: i prigionieri reclusi sono stati effettivamente sfruttati come manodopera da alcuni dei fornitori dell’Ikea, che ne era consapevole e non ha fatto nulla per limitare o evitare lo sfruttamento. Ecco ciò che dice esattamente il rapporto: “Prigionieri politici e comuni vennero impiegati in parti della produzione di mobili o di componenti, che tra 25 e 30 anni fa vennero consegnati alla Ikea”. Nello studio, che non verrà diffuso interamente per questioni relative alla tutela della privacy, si fa particolare riferimento a due stabilimenti: a Waldheim, in Sassonia, e a Naumburg, in Sassonia-Anhalt.
Si tratta di un vero e proprio scandalo per Ikea, ditta presente nelle case di quasi tutti i cittadini italiani e di moltissimi in tutto il mondo, dal momento che proprio Ikea nelle sue campagne pubblicitarie si è sempre distinta per le sue posizioni a favore dell’ambiente e del rispetto dei diritti dei lavoratori.
Ma come mai si arrivò a questa situazione nella Germania dell’est? Fino agli anni’80, nella parte orientale del Paese, vigeva un’ortodossia socialista, ma i princìpi di quest’ideologia cominciarono a venir meno quando iniziarono a scarseggiare i soldi a causa della crisi della monocultura dell’industria pesante. A questo punto la Germania dell’Est non potè più fare a meno dell’aiuto del capitalismo occidentale, né dell’utilizzo (sfruttamento) dei prigionieri. Abbiamo persino alcune testimonianze. Alexander Arnold ricorda che “Se consegnavi meno dell’80 per cento della quota richiesta, venivi accusato di sabotaggio”, mentre Anita Gossler aggiunge che “C’erano almeno tre ordini al giorno: non ti potevi rifiutare, altrimenti venivi rinchiuso in una cella d’isolamento a pane e zuppa per almeno tre giorno”.
Ovviamente, appena è uscito lo scandalo, i dirigenti dell’Ikea hanno provveduto immediatamente a rilasciare le loro dichiarazioni di rammarico attraverso questo comunicato, presentato dalla manager Jeannette Skjelmose: “Siamo profondamente dispiaciuti che ciò sia potuto accadere. Usare i prigionieri politici per la produzione non è mai stata un’idea accettata dal Gruppo Ikea. All’epoca non avevamo ancora il sofisticato sistema di controllo che abbiamo oggi, ma ammettiamo che non abbiamo fatto abbastanza per impedire una produzione del genere”.
Ciò nonostante, l’associazioni delle vittime della DDR ha aspramente criticato queste accuse lanciate contro Ikea, e non hanno tutti i torti dal momento che l’indagine non è stata nemmeno svolta da esperti, ma da Ernst&Young (società di consulenza aziendale). Roland Schulz, vicepresidente dell’associazione delle vittime della DDR, ha definito la scoperta di oggi uno “show”, anche se non sembra razionale la scelta di Ikea di farsi consapevolmente della pubblicità negativa per attirarsi l’attenzione, Staremo dunque attenti a cogliere ulteriori sviluppi della vicenda.
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