L’Islanda mette al bando il porno online, dopo una consultazione nazionale in cui i votanti hanno dato largamente l’ok all’iniziativa.
Dopo il crack che ha portato l’economia islandese al collasso, il paese si è riciclato come baluardo della libertà sia online che offline. La società islandese è tra le più evolute in quanto ad uguaglianza tra i sessi, è tra le società con maggiori libertà sessuali ed il governo è presieduto da un primo ministro dichiratamente lesbica. Grazie ad internet il paese ha redatto, emendato ed approvato una nuova costituzione e, periodicamente, i suoi cittadini vengono interpellati circa questioni come mettere al bando il porno.
Sede di numerosi data center tra cui Google ed HP, l’Islanda ha già messo al bando molti prodotti pornografici tra cui riviste e pubblicazioni stampate sul tema, ha chiuso i night club ed i topless bar ed ha una rigida legislazione a protezione delle donne e della prostituzione dove chi viene criminalizzando, commettendo reato penale, è il cliente e non la prostituta.
Secondo il consigliere del ministero degli Interni Halla Gunnarsdottir, il governo sta studiando come mettere al bando la pornografia secondo un approccio garantista nei confronti dei bambini: “il nostro approccio al problema non è anti-sesso, bensì anti-violenza. Non è questione di libertà di parola, bensì di danni all’infanzia. Le statistiche indicano che in media un bambino vede pornografia su Internet a 11 anni di età e questo ci preoccupa, così come ci preoccupa la natura sempre più degradante e brutale di quello a cui sono esposti. Non stiamo parlando di censurare l’informazione, ma qualcosa dobbiamo fare”.
Attuare il blocco però, potrebbe non essere semplice, le idee preliminari consisterebbero nell’applicare dei filtri per impedire la navigazione, come già accaduto in vari paesi europei contro siti pirata, rendere penalmente perseguibile chi effettua pagamenti per iscriversi a siti porno o canali tematici. Motivo della contesa non sembra essere tutto il mondo del porno ma, stando alle intenzioni dei cittadini e del legislatore, l’intenzione sarebbe il voler ridefinire il vasto panorama a luci rosse, restringendo l’accesso ai contenuti circa attività sessuali violente e drgadanti.
Il problema più gravoso diventa quindi a chi dare il potere di decidere cosa è ammissibile o cosa no. Secondo alcuni esperti alla lunga, questo meccanismo potrebbe diventare una sorta di censura e limitare le libertà individuali.
Ma il porno fa male? Ci sono opinioni e studi contrastanti. Secondo il professor Tim Jones della Worcester University, il porno diffone delle “fantasie estreme” che poi alcuni utenti cercano di mettere in pratica nella vita reale. Gail Dines, docente di sociologia al Wheelock Colleg, sembra essere sulla stessa linea d’onda di Jones: “non è che chi guarda il porno su Internet poi esce e commette uno stupro” dice “ma cambia il modo in cui la gente pensa all’intimità, al sesso, alle donne. E un sacco di gente non ha idea di che cosa sia veramente il porno sul web. Se un ragazzino 12nne clicca porno su Google, non trova immagini di donne nude dalla rivista Playboy, bensì filmati estremamente hard in grado di traumatizzarlo nell’età della pubertà”; secondo un’analisi, infatti, il 25% delle ricerche fatte su internet, infatti, riguarda il porno, la parola sesso è quella più ricercata sl web e circa il 20% dei siti sono di natura pornografica.
Ma non tutte le opinioni sono così radicalizzate, secondo uno studio dell’università di Montrial fatto nel 2009, ha riscontrato che l’esposizione alla pornografia non cambia in alcun modo la percezione delle donne da parte degli uomini.
Molti si sono scagliati contro questa idea islandese tra cui Smari McCharthy, presidente dell’International Modern Media Initiative, che la definisce, senza mezzi termini, “fascista e folle”. Ma il governo di Reykjavik fa quadrato attorno all’iniziativa e dichiara “siamo progressisti, siamo democratici, crediamo nell’eguaglianza tra i sessi e siamo pronti a essere più radicali di altri”.
Il timore è che, se l’Islanda approvasse veramente una legislazione restrittiva in questi termini, altre nazioni potrebbero seguirla tra cui, secondo l’Observer, la Gran Bretagna.
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