Flessibilità o articolo 18? Questo sembra essere il dilemma di appena ieri.Oggi i fantasmagorici scenari della politica hanno distolto l’attenzione dalla vera sostanza della politica stessa: semplicemente governare il Paese. Meno di un paio di mesi fa faceva scalpore la vicenda del Professor Ichino, il quale, emarginato all’interno del PD, è stato poi accusato di tradimento dagli ex compagni per essere passato nel raggruppamento politico del Presidente Monti.
Paradossalmente, in questi giorni, i problemi stringenti della gente comune sono passati in second’ordine rispetto alla necessità, dei partiti, di nascondere la crisi profonda del sistema politico italiano con i loro goffi tentativi d’intesa.
Presto però il tema del lavoro tornerà di attualità, c’è da giurarci; la crisi non fa sconti e anche l’elettorato questa volta (la prossima volta, tra pochi mesi cioè), non ne farà.
La riforma del diritto del lavoro e della fiscalità che lo accompagna, sarà dunque il tema centrale del dibattito economico e sarà uno dei pilastri su cui poggiare le chance di ripresa della nostra economia.
Ma non basta. Non basterà, forse non è mai bastato.
Le riforme, a partire da quella Biagi fino alla ultima della Ministra Fornero, è inutile negarlo, non sono state capaci, di per sé, a dare maggiore dinamicità al sistema produttivo e impulso all’occupazione. Perché? Alla domanda si pensa di rispondere modificando la ricetta, aggiustando leggermente il tiro della legge, ma non si centra mai l’obiettivo. Perché dunque?
Le ragioni devono essere a questo punto cercate più in là. Vanno ravvisate nel rapporto sbilanciato tra la forma della legge e la sostanza della fattispecie che questa vorrebbe regolare. Ma la legge non ha forza sufficiente, soprattuto in Italia dove, a fronte di una radicata cultura del diritto, manca quasi del tutto la cultura della legalità.
La veste giuridica del rapporto di lavoro subordinato è importante, lo è come un vestito da cucire addosso a imprese e dipendenti. Ma deve esser chiaro che un vestito serve per essere indossato sopra un corpo che ne è il contenuto, e che il contenuto è più importante, e il contenuto è il lavoro.
Non è pensabile che una mera riforma giuridica possa da sola modificare concettualmente il ruolo del lavoro e del lavoratore all’interno dell’impresa o delle imprese. E’ un po’ lo stesso errore in cui è incorso Marx ipotizzando che bastasse cambiare la struttura e l’organizzazione della società per rendere il mondo più giusto e l’uomo più buono.
Senza tuttavia voler allargare troppo il discorso, è chiaro che la riflessione sul lavoro debba essere soprattutto di carattere culturale, se non addirittura esistenziale.
Il ripensamento delle prerogative del lavoro sono fondamentali per continuare a dare senso all’articolo uno della Costituzione italiana. Essere fondata sul lavoro non significa che il lavoro debba coincidere con la mera gestualità e la mera routine del lavoro stesso, a fronte delle quali viene attribuito pro quota reddito. Se quel lavoro è improduttivo, non si ripaga il lavoro con il reddito ma con il debito: debito pubblico.
Si potrebbe definire questo tipo di lavoro come “lavoro retorico”. Ma il male non sta solo e soltanto nel meccanismo macroeconomico che innesca il lavoro retorico, quanto piuttosto nel fatto che la dignità del lavoro e del lavoratore (e con esso della nostra Repubblica) viene di fatto svuotata di significato.
Lavorare per che cosa? Perché lavorare? Come dare senso al lavoro? Come abbattere la cultura del mito del lavoro fine a se stesso? Come cessare questa retorica? Come coniugare la cultura del diritto al lavoro con quella della utilità del lavoro? Come coniugare l’utilità del lavoro per l’individuo con l’utilità che ne trae il sistema? Come reintrodurre non solo il merito, ma anche la gratificazione (persino nei lavori più umili) e come far coincidere il senso della gratificazione economica con quello della soddisfazione e realizzazione nel lavoro?
Se il tema marxiano dell’alienazione focalizzava l’attenzione sulla proprietà dei mezzi di produzione, qui l’alienazione è assai più profonda e riguarda, se vogliamo, il rapporto tra l’animo umano e la sua azione nel mondo, la sfera intima dell’essere.
Si risponderà che tutto questo non riguarda la politica e soprattutto non riguarda le leggi di un Paese, ma se si risponde in questo modo, significa non aver capito il profondo cambiamento che sta attraversando il mondo e l’Italia con esso. Significa essere oggettivamente conservatori anche se di sinistra.
Il lavoro oggi deve essere soprattutto un lavoro utile, a sé, al sistema Italia e al sistema Mondo. Il diritto al lavoro pertanto coincide con la difesa del lavoratore in alcuni diritti fondamentali, ma non può tutelare la perdita di senso del lavoro quando questo diventi non più utile. Ciascun individuo dovrà continuamente interrogarsi (e aggiornarsi) al fine di verificare l’attualità del suo fare.
La Legge su tutto questo non è la chiave di volta, ma lo è il modo di condurre la cosa pubblica.
Non a caso l’Italia è il paese con il più gran numero di provvedimenti legislativi e regolamentari, la più parte dei quali inutili o inapplicati.
Un governo, ma anche un parlamento, forse anche una costituzione, devono acquisire alla loro natura e funzione la necessità di trasformare lo stato in una repubblica pragmatica, concreta, efficace. Prendere spunto in questo dai paesi anglosassoni sarebbe gran cosa, ma arricchendo il tutto con la nostra passione e la nostra creatività.
Che occorra cambiare i paradigmi della politica (e del lavoro) per ora lo ha compreso soltanto Grillo, ma le sue proposte sono forse troppo avanti coi tempi. In maniera più realistica sembrava che lo avesse compreso Renzi. Senz’altro la prova che stanno dando oggi i partiti ed in particolare il Partito Democratico non fa essere ottimisti in questo senso.
Articolo a Cura di: Giorgio Angelo Lazzarini
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