Dopo Bastardi senza gloria Tarantino torna a rivisitare la storia, con cui gioca ingegnosamente, compiacendoci e compiacendosi.
Locandina del film Django Unchained, ultima fatica di Quentin Tarantino
L’intera filmografia tarantiniana dà allo spettatore un’impressione predominante: che si stia divertendo prima di tutto Quentin Tarantino stesso. Qualità e limiti del cineasta statunitense sono da ricercare proprio in questa caratteristica, in particolar modo se si parte dal Tarantino del post esordio, da Kill Bill in poi ed il ricorso costante all’immaginario mitico preesistente, la collezione filmica storica, il feticismo generalizzato.
Stesso copione in Django Unchained, omaggio al film del 1966 Django, diretto da Sergio Corbucci e interpretato da Franco Nero. Ancora una volta è la maschera dell’abilissimo Christoph Waltz a fare gran parte del lavoro, nei panni di un cacciatore di taglie in cerca dei feroci fratelli Brittle, che troverà e ucciderà proprio grazie all’aiuto di Django (Jamie Foxx), schiavo nero prelevato non senza spargimenti di sangue dai fratelli Speck. Dopo l’uccisione dei ricercati, il patto fra i due si estende e li vede insieme durante tutto l’inverno per poi impegnarsi, giunta la primavera, nella ricerca di Broomhilda, moglie di Django, anch’essa schiava.
Non manca la violenza, estrema in alcuni casi, meno eccentrica e canzonatoria rispetto al precedente lavoro (gli scalpi dei soldati in Bastardi senza gloria), ma utile alla costruzione del rapporto di celata stima fra i due protagonisti, nel loro cammino praticamente privo di intoppi fino all’incontro con il fanatico Calvin Candie (Leonardo DiCaprio). Umorismo sottile come al solito, primi piani rivelatori ed ammiccanti, scene dense di un compiaciuto accanimento, che si tratti di violenza o di sarcasmo portato alle sue estreme conseguenze, e quella (ormai consueta) voglia di dare voce agli oppressi che tuttavia non scade mai in un ingenuo manicheismo.
Abile a stemperare con l’ironia tematiche delicate, a far sognare lo spettatore mosso sin dai primissimi istanti da un forte sentimento di rivalsa ed a mescolare decine di generi diversi come al suo solito, l’ormai cinquantenne regista del Tennessee riesce ancora una volta nell’impresa di padroneggiare a pieno un’epoca sviscerandone i dettagli, a fare suoi ambienti, personaggi, atmosfere. E nonostante qualche inciampo dovuto all’eccessivo contemplarsi (colonne sonore che spaziano dall’epico al patetico, con il colpo di grazia di Elisa prima della scena clou), le quasi tre ore di pellicola scorrono via piacevolmente e, complici i brillanti dialoghi, le notevole prove attoriali e gli intervalli sanguinolenti, ne esce fuori uno spettacolo godibile non solo per i fanatici di Tarantino.
Il regista statunitense, dalla sua, si conferma “ladro” dell’immaginario filmico, in grado (ed in diritto) di dare nuova vita a storie e personaggi, circondati da quell’alone di autoreferenzialità che l’ha reso celebre.
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