Principio cardine del nostro ordinamento è che gli eredi, a meno che non intervenga un atto formale – il rifiuto dell’eredità (dichiarazione ricevuta da un notaio o dal cancelliere del tribunale in cui si è aperta la successione e inserita nel registro delle successioni, art. 519 del Codice civile) – subentrano in tutti i rapporti attivi (crediti) e passivi (debiti) del defunto parente (de cuius , ovvero “della cui eredità si tratta”), salvo il caso in cui l’accettazione avvenga con beneficio di inventario, come si vedrà oltre.
A tale principio non fanno eccezione i debiti contratti con l’Amministrazione Finanziaria.
L’art. 65, comma 1, del DPR 600/1973, infatti, dispone infatti che Gli eredi rispondono in solido delle obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte del dante causa (il defunto parente..).
Occorre però fin da subito fare un distinguo.
Una volta verificatosi il decesso ed aperta la successione, non tutti i chiamati all’eredità sono tenuti a rispondere dei debiti tributari del de cuius.
Perché ciò avvenga, come si è accennato precedentemente, occorre che il chiamato accetti l’eredità; tale accettazione può avvenire in forma espressa oppure tacitamente, con fatti concludenti, nel caso in cui, ad es. (vendita di un immobile) si effettuino disposizioni su beni facenti parte della massa ereditaria.
In tal caso, il comportamento concludente costituisce accettazione tacita dell’eredità e si genera quella che viene definita “confusione dei patrimoni”; pertanto l’erede dovrà rispondere di tutti i debiti, compresi quelli tributari, facenti capo al defunto, anche con il proprio patrimonio personale, qualora i beni oggetto del patrimonio del caro estinto non siano sufficienti a coprire l’assolvimento dei debiti contratti.
Tale ultima situazione non si verifica nel caso in cui il chiamato accetti con “beneficio di inventario”.
L’effetto del beneficio d’inventario consiste nel tener distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede (art. 490 codice civile).
Conseguentemente, l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti.
Effettuata questa breve premessa, tornando alla questione cardine, va quindi precisato che è onere dell’Amministrazione Finanziaria creditrice del defunto, al fine di poter pretendere l’adempimento, dimostrare che il chiamato abbia accettato l’eredità (espressamente o tacitamente). In tal senso Cassazione Sez. Tributaria 13 ottobre 2010 n. 21101: solo l’erede, a seguito della confusione dei patrimoni, risponde delle obbligazioni (anche tributarie) del de cuius ma, secondo la giurisprudenza di legittimità, “grava sull’amministrazione finanziaria creditrice del de cuius l’onere di provare l’accettazione dell’eredità da parte del chiamato, per potere esigere l’adempimento dell’obbligazione del suo dante causa”.
Parziale eccezione al principio sopra enunciato dall’art. 65 comma 1, del DPR 600/1973, è rappresentata dall’art. 8 del Decreto legislativo, 18 dicembre 1997, n. 472 intitolato “Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662”.
Secondo tale disposizione, infatti, L’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi.
In altre parole, gli eredi, pur tenuti a pagare i debiti fiscali del defunto (le tasse), non sono tenuti a pagare le relative sanzioni, essendo queste ultime “personali”.
L’erede, dunque, prima di procedere a qualsiasi pagamento, dovrà richiedere e pretendere che l’Amministrazione Finanziaria riduca il debito, espungendo dallo stesso tutte le sanzioni applicate.
In tal modo l’Ufficio riformulerà la cartella addebitando soltanto i tributi agli eredi e non le sanzioni e procederà all’archiviazione delle cartelle relative alle sanzioni amministrative.
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